Al confine del bianco, Antonio Nesci, Edizioni dell’Aurora, Verona, 2015.

 

 

L’immagine di copertina è un’opera di Giorgio Montanari, intensamente evocatrice: un uomo con un triangolo rosso sul viso, come bendato, è a cavalcioni di una pera e sembra dirigersi verso il pianeta terra, trascinandosi dietro una specie di aquilone. Il risvolto di copertina riporta una bella poesia di Antonio Nesci, ispirata al dipinto, che stabilisce anche sottili collegamenti tra le figure disegnate nell’opera e la sua raccolta di testi. Sul volto dell’uomo c’è la maschera che nasconde e depista, nel sogno o nell’anima o nella realtà (“celandosi il volto/ per rassomigliare/ sempre piú a se stesso”), manifestandosi cosí nella sua molteplicità e fragilità. La maschera, da un lato, è protettiva perché eleva un ponte tra l’essere e il volere essere, acquietando la paura di essere scoperti non esponendo la propria figura rivelatrice di immancabili vulnerabilità; dall’altro lato, è rappresentativa perché esprime la manifestazione del sé universale e la personalità del mascherato non ne è modificata e non è influenzata dalle contingenze. In un volo dentro l’iconografia, il poeta parla dell’uomo con il volto coperto che trascina geometrie di aquiloni, tra la luna e la terra, quasi in cerca dell’effigie del sé, cavalcando un frutto allusivo a viaggi estatici o a autentica cottura d’amore e persino a semplicità.

            Il neo-surrealismo del disegno di copertina si abbina con il titolo stesso della raccolta, “Al confine del bianco”, perché il limite del colore è irreale e suggerisce una frattura enigmatica, sollecitando la domanda: “Che senso ha?” Se ci si limita al suo limite, ci si può chiedere quando, come, dove, quale, e quanto esteso sia il confine del bianco. Quando? Il confine si materializza nell’alternarsi del giorno e della notte, della veglia e del sonno, della realtà e del sogno: è il punto instabile del cambiamento, incardinato con il nostro movimento. Come? L’estremità si avverte nell’assenza della luce o si raggiunge con l’immersione in un’altra, sovrana e immensa, che appare ancora piú bianca di ogni altro bianco e fluisce nella totalità dell’esistente: l’amore e Dio. Dove? La frontiera sta nel luogo determinato dalla verità della poesia, sorgente di illuminazione che ci mette in contatto con la pulsione primordiale dell’universo e ci colma di impeto per innalzare l’anelito all’empireo, vertice della divinità. Quale? Il limite del bianco è molteplice nel suo perpetuo smembrarsi e presentarsi nell’atto unico della fine. Quanto? Un infinitesimo di frequenza, che contiene l’infinito spettro del colore, è la misura della vita e della morte, che ci riporta al confine del bianco ineffabile. Nel titolo si condensa una parte cospicua della poetica di Antonio Nesci.

            La nota introduttiva – “Per una lettura di 'Al confine del bianco'” – è di Ivan Fedeli, che in modo acuto e circostanziato evidenzia alcuni imprescindibili elementi caratterizzanti la raccolta, abbozzando anche qualche aspetto essenziale del percorso poetico dell’autore. La raccolta si compone di due sezioni. La prima è “Mi tingo di rosso”, un preludio che prende il titolo del primo verso dell’epigrafe e sembra centrata sullo scavo dei ricordi, come indica l’epigrafe stessa: “ho il corpo nell’aria e vivo storie di eroe” (p. 9). La seconda costituisce il corpo della raccolta e, a sua volta, è suddivisa in cinque parti, individuate sempre dal primo verso delle corrispondenti epigrafi (l’introduzione con titolo preso dall’epigrafe della sezione, “Quando il cielo progrediva nelle costellazioni”, e le alte quattro sub-sezioni: “Cercami se vuoi, quando”, “Moriamo senza il respiro”, “Nei meandri di sofia”, “Altro era il mio sguardo”). La postfazione è di Paolo Francia che aggiunge altri spunti per la riflessione. Nella quarta di copertina c’è una nota breve e intensa, puntuale e preziosa di Giovanni Capucci.

            I testi di ogni sezione non sono titolati, ma sono numerati in modo un po’ indecifrabile, forse cabalistico. Anche questo suggella una peculiarità dell’autore, che si esprime attraverso finzione e depistaggi: l’attore che recita l’anelito d’amore blandendo il dolore, il mimo che rappresenta il sogno descrivendo disillusioni, l’affabulatore che racconta la realtà mostrandoci l’irrealtà, il cantore che intona sequenze di gesta e di fatti con le iridescenze della fantasia, l’errante che decanta i molteplici viaggi illustrando il giardino di casa che è il suo cuore. L’innocenza dei sentimenti è la cifra volta a cogliere l’intensità della modulazione dei temi che scorrono sangue nelle arterie della passione e della fuga, per non scoprire le carte coperte o per ricombinarle appena scoperte: “mi abbandono/ improvviso alla memoria, io che scrivo/ tutto di me – il bevuto, il mangiato/ l’amato e il dolore –, che pare essere ossa/ sangue e pensiero di me” (p. 11); “nasco nuovo/ in una dimensione di gioco, maschera per un carnevale/ senza coriandoli, senza illusioni, senza faccende,/ solo specchio e ultima idea/ di uomo che racconta, dalle vene ai piedi,/ la sua storia sulla nave ballerina” (p. 14); “Farò di ogni anima mille solstizi,/ poi, inciderò le acerbe attese/ innestando un intimo seme per il tempo distratto” (p. 31). Versi che illuminano l’approccio dell’autore e guidano il lettore nei testi lungo sentieri musicali e attraenti, ritmici e sognanti, favolosi e depistanti, non sempre agevoli e diretti; versi intrisi di luna e sole, di acqua e sale, di terra e stelle, d’amore e dolore.

            La memoria è il luogo di gestazione della coscienza e dell’emersione di bagliori nel buio che attivano nella fucina del cuore le alchímie di frammenti di storie e di immagini nei versi. Ecco alcuni frammenti, “era bello ‘girare’ per Modena,/ con un mazzo di fiori, un indirizzo e in bicicletta/ suonare il campanello, ‘fiorista’, ultimo piano/ senza ascensore,/” (p. 17) oppure “Vendevo caramelle e bibite,/ d’estate, al cinema all’aperto, vendevo/ le mie vacanze alle illusioni” (p. 18), che sono finestre sulle sue professioni giovanili, gli anni furenti per tutti, sia pure con modalità differenti (“non mi ubriacavo mai, perché sapevo dosare/ la quantità massima/ la sofferenza minima, l’illusione/ di poter essere incolume alle tentazioni/”, p. 19). Nonostante la nota dominante sia centrata sul flusso di metafore quasi visionarie, qua e là sono disseminate frasi maieutiche e perfino gnomiche: “Lasciala/ bere la tua radice, lascia che il sangue/ ritrovi la via/ nel pulsare ritmico/ dell’esistenza/ … il susseguirsi dell’ombra/” (p. 21); “Pane che cresce nel lievito antico/ delle mani, cresce e sazia/ la fame di ogni fatica” (p. 25); “forse sapevi già, che anche nei cuori grigi/ c’è aria di primavera” (p. 44); “Transita il respiro acerbo nell’uomo/ che non ha mai smesso di nascere,/ ossigeno puro e farina cruda” (p. 57).

            I testi contengono suggestioni che paiono condurre a uno spazio religioso, anche nel significato mito/psico/logico, come se la fede fosse poesia e la poesia fosse fede, perché entrambe si nutrono d’amore viscerale e universale che eleva alla luce assoluta, la quale tutto contiene e in tutto è contenuta: Dio. Si può evincere dai versi anche una credenza fusionale e misticheggiante, contigua per qualche misura persino al panteismo: l’universo è l’epifania dell’autentico amare. In molte parti si possono rintracciare elementi allusivi al tema, ma il primo e piú esplicito riferimento alla religione è il seguente: “mesi senza cauzione/ in disordine con le passioni … il rimorso che si commuove e si proclama/ innocente davanti/ alla passione delle spine della croce/ … in attesa di … campane della resurrezione/ e la festa che ci nutre/ di essenziale” (p. 45). Vi è, poi, la sub-sezione finale – è un caso che sia posta alla fine? – interamente dedicata all’argomento, come sembra esplicitamente indicare l’epigrafe: “Altro era il mio sguardo,/ quando/ oltre i cancelli del cielo/ coglievo stelle e lune” (p. 81). È composta di quattro poesie. L’ultima termina con una frase, che scolpisce un lato della dinamica evolutiva del suo rapporto con il divino: “ho pregato per la fede che mi resta/ impressa/ nel profondo dell’esistenza” (p. 86). La sua fede sembra problematizzarsi non nelle incoerenze della teologia, ma negli iati dell’esistenza, negli interstizi della sofferenza, nelle lacerazioni dei desideri frustrati, e negli strappi irrimediabili della sorte verso i quali si registra l’impotenza dell’essere. Là, tra quelle antinomie fedele compagna resta la fede che accompagna l’uomo sul sentiero accidentato e tormentato. In tale àmbito si può collocare anche la questione della morte che, come ombra, spunta quasi dappertutto.

            L’amore è il nucleo magmatico di ogni composizione. La via sembra facile e l’oggetto coinvolgente, ma l’apparenza non deve ingannare il lettore, perché l’amore è una chiave che ha vasta molteplicità di significati e contestualizzazioni. Si tenga presente, inoltre, che l’apoftegma preferito dall’autore è “il poeta è un fingitore” (Fernando Pessoa, Autopsicografia, in Una sola moltitudine, Adelphi, 1979), sicché il referente non è mai univoco e immediato: la madre, la moglie, la figlia, la nipote, la poesia, l’arte in genere, l’energia affrancatrice, sé stesso, e persino la divinità. Per esempio, “sentiamoci/ per non smarrire/ la radice che ci ha fiorito/ insieme alla nebbia dell’autunno” (p. 26). Qui il referente si addice a una qualunque delle figure sopra citate: la madre, l’amante, l’universo. L’amore può essere carnale o spirituale, passionale o imperturbabile, filosofico o teologico, psicologico o metalogico: forse non è nessuna di queste cose e tutte queste cose assieme; infatti, in Antonio Nesci l’amore sembra essere la chiave interpretativa del mondo, il nucleo del poetare, il cuore pulsante del pensiero, il centro delle relazioni interpersonali, l’essenza stessa dell’esistenza.

            Il canto è la magia che irretisce l’autore, il canto che non può interrompersi, perché è memoria e alito di vita, rivelazione di sentimenti e sensazioni che portano l’impronta del sé al mondo. La parola stregata è la pozione che trasforma la realtà in sogno e il sogno in realtà, è la formula che è quel che dice e quel che dice non è, è il veicolo che esprime il piacere del suono e il suono del piacere, scatenando reazioni mimetiche che hanno incantato il fingitore, esistente e resistente proprio nel perdersi dentro i suoi versi, dai quali riemerge rinnovato e pronto a nuove immersioni nella fantasia, nella memoria, nel dolore, nelle storie vere o trasfigurate. Spesso nella lettura della sua opera scaturisce un’aura densa che insegue e segue la climax, un crescendo di emozione che vibra nel raccontarsi confabulante sull’orbita di un movimento circolare e spiraliforme, quasi caotico, che riporta verso l’origine allontanando da essa. Non si riesce a rappresentarla con brevi citazioni e, talvolta, non appare nemmeno dalla lettura di un solo testo. I versi fluiscono sempre in forme piane e quasi colloquiali, lasciando una intensa eco nelle immagini, un’atmosfera che irrompe dal tessuto della partitura. L’autore adotta il verso libero e la musicalità è affidata ai ritmi interni del discorso, al suono delle figure, alla modulazione specifica delle parole. Gli effetti dell’andamento espressivo passano nell’enjambement, nella lunghezza dei versi che intonano i battiti del respiro e scandiscono le impronte della narrazione.

            La vulcanica creatività dell’autore imprime una naturale stratificazione delle parti costituenti i testi, che oscillano tra il caotico emergere nella coscienza di fatti con le relative associazioni e l’ordinato disegno strutturato di un progetto comunicativo. Si nota súbito una abile modulazione delle tonalità metriche con oggetti, termini, e traslati; i quali creano d’incanto sensazioni e visioni quasi tattili, una ridda concitata e passionale, una narrazione persistente e musicale. La pulsazione dei testi deriva dall’armonia interna delle sillabe e dal fascino della magia incorporata nelle parole stesse. Il dolore non è estraneo al tocco di corde che vibrano toni accorati ma composti, trilli di euforia temperati dalla commozione, suoni di passioni autentiche disciolte nella disciplina della poesia e nella finzione. Il dolore è talvolta raccoglimento interiore: non affossa la mente, ma scavalca il fosso sfuggendo all’abisso. In quest’opera l’autore spinge il lettore a seguire il viaggio verso il confine di sé, a cogliere l’etereo spazio dove il bianco diventa candore per entrare nell’innocenza dell’essere, a riflettere sui nessi impercettibili tra fatti e coscienza per individuare il mistero delle immagini sulle orme dei passi che percorrono le fratture e le saldature tra i sogni e la realtà.

 

Michele Lalla